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Intervento alla tavola rotonda interdisciplinare

Pasquale Ferrara*

 

Ripensare la dimensione del conflitto

Due parole anche per giustificare la mia presenza a questo seminario.

La mia professione è quella del diplomatico e, quindi, sono chiamato spesso a reagire soprattutto a circostanze contingenti, perché la politica internazionale è in buona parte  attualità. Mi sono però reso conto, ad un certo punto, che senza una «mappa concettuale» nella quale potersi orientare, diviene difficile rispondere adeguatamente alle sfide ed alle criticità del tempo presente. Da questa esigenza è nato un processo di studio e di riflessione, parallelo e complementare alla mia  professione ed alle mie funzioni di carattere istituzionale.

Dirò subito che ho letto con grande interesse il libro di Boltanski. Adesso non vorrei fare la parte di  discussanti inserendo nel nostro dibattito ulteriori elementi critici - perché è stato fatto già egregiamente. Mi limiterò ad indicare alcuni percorsi che proprio la riflessione sulla realtà internazionale di più lungo periodo mi suggerisce. 

Il primo elemento riguarda la stessa possibilità di una teoria politica internazionale. Esiste in effetti un filone di analisi e di teoria e di filosofia politica a carattere internazionalistico che è poco esplorato, ma che diventa sempre più  importante, e direi centrale, anche nella prospettiva di un orientamento concettuale e di strumenti analitici adeguati all’interno della realtà  globale in cui siamo immersi.

Un primo problema riguarda le istituzioni. Evidentemente, quando si parla di «sistema» internazionale, di «relazioni» internazionali, l’aspetto istituzionale è  fondamentale, e quindi, da mio punto di vista, anche io osservo che questa è in effetti una notevole carenza nella riflessione di Boltanski. D’altra parte, non è impresa facile  identificare istituzioni che possano in qualche modo rappresentare la concretizzazione dell’«agire agapico» in campo internazionale. A questo proposito, un tema fondamentale su cui si discute è - l’abbiamo visto anche in questi giorni al vertice della  FAO -  è quello della possibilità e praticabilità della «giustizia internazionale», giustizia non nel senso in cui la intendono i giuristi, ma nel senso di giustizia sociale internazionale. Un tema che, oltre ad essere di grandissima attualità, ha aperto un fiorente e ricco filone di analisi e di studio nella riflessione politica internazionalistica. 

Vorrei citare in particolare un autore, Alexander Wendt, che ha compiuto una seria impresa scientifica nel suo libro intitolato Teoria sociale delle relazioni internazionali.  Wendt fornisce argomenti molto fondati per scardinare alcuni presupposti della teoria classica o «realista» delle relazioni internazionali, sostanzialmente fondata sulla constatazione delle asimmetrie e dei rapporti di forza.  Wendt mostra come questo approccio sia limitativo, ed invita a tener conto di una pluralità di elementi; non ultimo il ruolo sia della società civile che delle istituzioni.

Un approccio che è in corso di valutazione nella teoria internazionalistica è quello della cosiddetta «analogia domestica»; in altri termini, ci troviamo confrontati col problema di come trovare una «regola di trasformazione» che ci consenta di  applicare sul piano globale quei principi di democrazia, di libertà, di uguaglianza, di fraternità, che sono stati analizzati sul piano della struttura della politica interna. Affermare che non è possibile un procedimento analogico di questo tipo perché sul piano internazionale vige l’anarchia è un alibi. L’anarchia internazionale esiste relativamente, perché nella realtà internazionale esistono norme, procedure, istituzioni. Esiste solo se la intendiamo nel senso ristretto che non c’è un'unica autorità in grado di far applicare le norme avendo il monopolio della forza  a livello mondiale. Ma in sé stessa l’anarchia non è necessariamente un fatto conflittuale: l’anarchia – afferma Wendt - è ciò che gli Stati decidono di farne. Wendt sostiene che l’anarchia può assumere diverse fattezze e portare a diversi esiti a seconda della logica che la guida. C’è l’approccio hobbesiano, che implica rapporti di forza; c’è l’approccio che si rifà a Locke, che valorizza il ruolo delle istituzioni come stanza di compensazione degli interessi; c’è infine l’approccio kantiano, che non preconizza  una dimensione vagamente irenica, ma è invece fondato sui processi che sono stati evocati sul piano dell’analisi sociologica, sulla logica del riconoscimento, che in ambito internazionalistico significa ad esempio pari dignità degli stati e degli attori, e considerazione dell’altro come amico più che nemico o rivale. Quindi questo è un filone che mi sembra particolarmente promettente.

C’è poi un altro problema. Ci troviamo oggi in una situazione in cui effettivamente prevale una dimensione non dico di conflitto (dirò alla fine qualcosa del concetto del conflitto in ambito internazionale) ma sull’idea dello scontro. La sfida è come superare lo scontro in una situazione di anarchia.

La riflessione si è concentrata su un cambio di  paradigma. Finora si è privilegiato lo schema sociologico, ma che è anche modo psicologico, legato alla figura del padre. Sulla scena internazionale, si manifestano le tre tipologie dell’assenza della figura del «padre» (il riferimento «ordinatore»), del rapporto deteriorato padre-figlio (egemonia da una parte, sfide all’ordine mondiale dall’altra), o del rifiuto dell’autorità  del padre (anarchia). Il rifiuto dell’autorità del «padre» rappresenta la giustificazione implicita dell’anarchia. Se manca l’auctoritas,  sarà difficilissimo riuscire  a configurare  rapporti cooperativi.

In alternativa a questo approccio, si è fatta strada la riflessione sul paradigma del conflitto tra fratelli: è il tema delle «politiche di Caino». La dimensione cambia completamente.  Perché  la causa dell’anarchia non è più l'assenza del padre, ma il fatto che i fratelli (quindi soggetti aventi pari dignità) non trovano un punto di concordia, di cooperazione. Questa prospettiva tra l’altro trova dei sostenitori autorevoli e in qualche modo insospettati. Per esempio ho scoperto che su questo concetto Jacques Derrida ha delle riflessioni molto stimolanti. Derrida scrive che il tema della fratellanza ritorna con molta frequenza nella storia del pensiero politico, ad ogni livello; noi però non abbiamo finora avuto il coraggio di elaborarne la dimensione politico-istituzionale, cioè scoprire cosa realmente significa ciò sul piano delle politiche. 

Una famosa classicista francese, Nicole Loraux, ha scritto un libro sulla «città divisa». Sostanzialmente la Lauraux rilegge la storia del pensiero politico nei suoi albori classici, quindi a partire dalla città, dalla polis greca. Dalla sua analisi emerge che la città,  ad un punto di svolta della sua paraboola, ha avvertito la necessità di «elaborare» un conflitto  iniziale. La città classica, la polis classica non è dunque il modello di armonia che Tucidide fa elogiare a Pericle nella famosa orazione funebre,   ma in realtà nasce da un conflitto. Tale conflitto è stato «assunto», e pertanto contiene in sé non solo la riconciliazione, ma addirittura l’oblio del fatto conflittuale insito nella stessa struttura della polis.

Un altro punto che vorrei toccare riguarda proprio il concetto di stato di pace. Anche io sono d’accordo con l’osservazione che lo stato agapico di cui parla Boltanski, ha, in fondo, ben poco a che vedere con lo stato di pace. Cito qui un autore che ho scoperto avere diversi cultori un questa sala: Emmanuel Mounier.  Per Mounier, c’è una netta  distinzione tra gli atti di violenza -  che sono immediati ed evidenti – e gli stati di violenza. Gli stati di violenza sono molto più pervasivi e «violenti», ma sono assai difficili da individuare e da denunciare.  Simmetricamente, dobbiamo considerare che lo stato di pace non è affatto uno stato debole, è la condizione che chiede alle persone il massimo di rischio, di mettersi un discussione, di accettare l’ignoto che rappresenta il rapporto con l’altro, sia l’altro nei rapporti quotidiani sia l’altro come attore politico internazionale diverso da me, portatore di diversi interessi.

Concludo con un’osservazione che forse potrebbe apparire in controtendenza con la riflessione sullo stato agapico.

Io credo che anche nelle relazioni internazionali,  ma non solo, vada ripensata la dimensione del conflitto, non perché il conflitto sia qualcosa in sé da interpretare e, in qualche modo, da considerare come un elemento imprescindibile, ma perché spesso si confonde il conflitto - che è in qualche modo confronto fra identità, confronto fra dimensioni antropologiche e geopolitiche - con lo scontro. Tutta la retorica della pubblicistica e anche di parte della politologia sul conflitto di civiltà riguarda, in effetti, lo scontro di civiltà. Altra cosa è assumere il conflitto (vale a dire assumere le differenze, assumere la contrapposizione) e decidere cosa fare per risolverlo. Ritorniamo al punto che ho evoaco in precedenza, e cioè alla constatazione che l’anarchia è quello che noi decidiamo di farne.

Un’ultima nota, tra il biografico ed il bibliografico. Sto finendo una ricerca sul rapporto tra democrazia e terrorismo, il cui titolo è: «Lo stato preventivo», inteso sia come condizione preventiva che come strutture statali che si occupano della prevenzione quindi della protezione della intera società contro il fenomeno del terrorismo. E la pista di riflessione che suggerisco è che c’è un rapporto inverso tra quello che i Greci chiamavano deinòn (cioè il terribile, il terrificante, ciò che ci fa paura e che non è solo il fatto concreto e cronachistico, per quanto drammatico, del terrorismo, ma una struttura sociale profonda) e il koinòn, cioè il comune, ciò che ci accomuna. Nella misura in cui si frantuma la nostra dimensione del rapporto con la comunità, aumentano le nostre paure. Anche in quest’ottica specifica, la riflessione sull’agire agapico mi sembra importante. Si è parlato di dono: il filosofo Roberto Esposito ha scritto pagine straordinarie sul concetto di comunità, non nel senso del comunitarismo anglosassone, ma proprio sull’idea di communitas, sottolineando che la comunità nasce solo dal dono, cioè dalla percezione di un’obbligazione reciproca, che non è l’obbligazione alla restituzione, ma è piuttosto il riconoscimento reciproco e quindi l’«accettazione» della mutua dipendenza.

*Diplomatico del ministero degli esteri

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