cutini_ritaRidare anima all'agire*

Rita Cutini**

La discussione aperta in questo Seminario ha suscitato in me un vivo interesse, anche perché le tematiche trattate non sono astratte, al contrario, sono tematiche che si impongono alla nostra attenzione come esperti del Sociale.
Cercherò, anche se in modo schematico, di contribuire con qualche osservazione “sparsa” a partire dalla mia esperienza nel dibattito culturale odierno.
La prima riguarda il contesto in cui ci troviamo: c’è una crisi dei modelli di Welfare ed una crisi profonda che si riverbera nelle professioni che hanno al centro del loro agire la “relazione”.
Questo è un dato di fatto dal quale è necessario partire: le professioni d’aiuto si trovano ad essere “scariche”, svuotate dalle loro motivazioni etiche profonde. Quando Zygmunt Baumann ipotizza delle spiegazioni alla crisi dei sistemi di Welfare non individua cause economiche, cioè la mancanza di risorse, che è un po’ la lettura prevalente, le cause di questa crisi sarebbero - secondo Bauman - di tipo etico1.
Baumann nel suo ragionamento, richiama una considerazione di Levinas sull’affermazione/domanda di Caino a Dio: “sono forse io il custode di mio fratello?”. Secondo Levinas questa domanda - il solo fatto di porre la domanda- mette in luce la crisi profonda del legame sociale fondamentale che è la responsabilità dell’altro. L’essere responsabile, l’essere il custode del proprio fratello è un fondamento primario e irrinunciabile del vivere sociale.
Sottolineo, solo per inciso, l’uso laico che Bauman fa di considerazioni etiche che affondano le loro radici nella Bibbia.
Torno al concetto di responsabilità. In una conversazione con Ricouer, sempre Levinas fa un’affermazione sulla responsabilità che vorrei mettere in relazione a quanto emerso in questi giorni. Levinas dice che la responsabilità è il nome austero dell’Amore. Il nome austero,sobrio,senza passioni, senza concupiscenza dell’Amore 2. La responsabilità dell’altro è cioè un nome dell’Amore. Mi sono chiesta se questa definizione non possa utilmente servire a spiegare la motivazione che è alla base delle professioni d’aiuto. La responsabilità dell’altro è uno degli elementi forse più pregnante di chi per lavoro si occupa dell’altro soprattutto nelle situazioni di disagio, del bisogno.
Ecco la relazione con il tema del nostro Seminario: cosa significa agire agapico? E’ necessario entrare dentro questa dimensione che, come si diceva anche ieri, non può essere considerata una astrazione, non può essere trattata come un’astrazione. Amare il povero, ad esempio è una declinazione importante dell’agire agapico.
Ieri si è parlato della residualità dell’agire agapico come oggetto di studio. Certo questo è vero: la sociologia non ha queste tematiche come oggetto di studio principale. Ma il fatto che non sia stato sufficientemente studiato, o che non ci siano gli strumenti adatti a questo scopo non significa che questo tema sia stato ininfluente o secondario nella vita sociale. Forse un’analisi storica potrebbe aiutarci in questo percorso di studio. Tuttavia noi sappiamo che l’amore per il povero ha influenzato fortemente la vita di milioni di uomini e di donne e anche la storia. Si è citato S. Francesco, ma con il bacio al lebbroso è la storia stessa che ha subito un cambiamento profondo e anche l’antropologia dell’uomo medievale non è stata più la stessa.
Penso anche alle nostre città, a come sono state trasformate anche dal punto di vista urbanistico, da quello che in questo seminario stiamo definendo agire agapico. Si pensi alle istituzioni ospedaliere, che non sono certamente state un elemento residuale, o penso ai Monti di Pietà, nate da un’intuizione Francescana, che ha influenzato grandemente anche la storia economica. .
Mi rendo conto che non ho gli strumenti adatti, ne la possibilità ora per una approfondita analisi, ma mi sembrava importante almeno introdurlo: non c’è solo la domanda di Caino che ha segnato la storia, anche se non del tutto conosciuto e studiato, c’è anche tanto agire agapico che ha orientato e intessuto la storia in modo profondo.
Richiamare alcuni concetti cari al dibattito del Servizio Sociale credo che aiuti a correggere il tiro e evitare il rischio di una teorizzazione astratta dell’oggetto di cui stiamo parlando. Mi riallaccio al filo di pensiero che propone Boltanski, egli parlava dell’aspetto pratico, l’agape come modello pratico dell’agire. Prima di tutto, quindi, l’agire agapico richiama ad una questione pratica . Mi vorrei fermare brevemente su questo aspetto che solo parzialmente è stato ripreso da altri.
La parola pratica ha attirato la mia attenzione perché era correlata a delle riflessioni che andavo facendo. Oggi essa è una parola un po’ caduta in disuso, mentre era tenuta in grande considerazione nella storia del Servizio Sociale, proprio nel periodo del suo maggior sviluppo che possiamo situare nel secondo dopoguerra in Italia. Ad esempio la prima Scuola di Servizio Sociale che nasce a Milano nell’autunno del ’44 si chiamava Scuola Pratica di Servizio Sociale e riprende un nome di una scuola francese E'cole Pratique de Service Social.
Non era un fatto incidentale, era una scelta. La fondatrice della Scuola di Milano, Odile Vallin, aveva su questo una sorta di idea fissa, sulla importanza di agire, l’importanza che anche nel momento formativo ci fosse la parte di tirocinio, di “fare”.
La figura della Vallin, francese dallo sguardo penetrante, rivelava una grossa consapevolezza di sé che la portava ad impegnarsi a comprendere gli altri; certo non era abituata ad indulgere ma a comprendere sì, oltre che a spronare e pretendere.
Aveva della professione dell’assistente sociale un alto concetto per il contributo che poteva dare alla promozione e allo sviluppo della persona anche sul piano civile e sociale.
Portava valori etici cristiani, ma anche un’etica laica profonda.
La Scuola di Parigi, fu frequentata anche da Madeleine Delbrêl, quest’altra bellissima figura di credente, che mi piace citare e ricordare - è aperta la sua causa di beatificazione- che nella Parigi devastata dalla guerra svolge la sua opera di Assistente Sociale e di formatrice. Anche qui mi colpisce la sua sottolineatura sull’azione, in una persona, come la Delbrêl che viene descritta come mistica e non per niente il Cardinal Martini la definisce una delle più grandi mistiche del XX secolo. Cito i suoi richiami, quasi perentori, alle sue allieve: “dovete agire”.
Ora noi possiamo fare tante supposizioni su questa preoccupazione della Delbrêl: le emergenze del momento, ad esempio, il non voler indulgere su letture teoriche, astratte che potevano apparire come un lusso per la situazione drammatica del momento. Ma quella dell’azione per lei è come un imperativo, agire significa vivere, lo riferisce non solo alle assistenti sociali, ma lo fa in genere, amare significa vivere. Anche la Delbrêl, non a caso, si riferisce al brano del Buon Samaritano che ieri Vera Araujo giustamente citava come modello paradigmatico dell’agire agapico.
Lo sottolineava anche Elisabetta Neve, chi un po’ conosce il dibattito sul Servizio Sociale sa che il rapporto tra il momento della prassi e quello della teoria è annoso ma io credo, sia anche mal posto. Io sono convinta, infatti, e lo dico come persona impegnata in questa disciplina, che il momento alto della professione di Servizio Sociale, sia proprio la pratica, l’azione, agire che significa introdurre degli elementi dinamici, di cambiamento, nella vita delle persone. Questo significa fare esperienza dell’umanità, questo significa divenire esperti in umanità. Ricordo volentieri un’espressione di Paolo VI che, riferendosi ai cristiani, parla appunto di esperti di umanità. E non a caso Paolo VI utilizza la parabola del Buon Samaritano, come paradigma di lettura di tutto il Concilio nel discorso finale del Vaticano II.
È proprio il brano del Buon Samaritano che, in una certa maniera, ci richiama all’imperativo dell’agire: “va e fai anche tu lo stesso”, dice Gesù in conclusione.
Su questo brano bisognerebbe fare molte considerazioni, sul motivo, ad esempio, per cui l’uomo si trova ad essere incappato nei briganti. Si potrebbero addurre spiegazioni sociologiche, psicologiche, personali, oggettive, la delinquenza organizzata. Molti studiosi si sono dati da fare a cercare le cause per dare un volto a questi briganti. Ma il Vangelo non cerca spiegazioni, o meglio, non sono quelle spiegazioni che spingono il Samaritano ad agire.
Questo mi fa riflettere, perché anch’io come professionista cerco delle spiegazioni al bisogno della persona che ho di fronte e sono tentata di credere, in qualche modo, che in quelle spiegazioni possano risiedere le motivazioni al mio agire. Alla fine della parabola il Buon Samaritano da all’albergatore una ricompensa in denaro per prendersi cura dell’uomo mezzo morto incappato nei briganti. Questo percorso iniziato con la compassione, finisce con una sorta di progetto d’aiuto – si direbbe in linguaggio tecnico- abbastanza strutturato, con una serie anche di risorse che vengono riadattate, con creatività, come l’olio e il vino, ma sarebbe utile anche evidenziare la figura dell’albergatore, con queste sue competenze, potremo dire, queste competenze professionali che anche inconsapevolmente sono ri-orientate e ri-motivate dalla scelta compassionevole del Buon Samaritano.
A me sembra, se ho ben capito l’intento di queste giornate di studio, che sia importante ridare anima all’agire; il problema non è se quel albergatore ha avuto o no compassione per quell’uomo mezzo morto, ma all’inizio, alla base dell’agire ci vuole quel sentimento che è la compassione, che suscita e ri-orienta energie e risorse. Quella compassione che è il motore, l’anima, credo, anche della nostra vita professionale e della nostra vita personale.

* Trascrizione da registrazione non rivista dall'autrice
** Docente di storia e principi del servizio sociale all'Università LUMSA di Roma
1 Zygmunt Bauman, La società individualizzata, Mulino 2001, in particolare il capitolo 5.
2 Emmanuel Lévinas, Gabriel Marcel, Paul Ricoeur, Il pensiero dell'altro, Edizioni lavoro, 1999.

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