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corvo_paoloAgire agapico nella quotidianità

Paolo Corvo*

Il disagio dell’io consumatore

Tra gli aspetti più problematici che caratterizzano la società occidentale vi sono senza dubbio la crisi del soggetto e la conseguente difficoltà delle relazioni interpersonali, che determinano situazioni di profondo disagio e acuiscono la fragilità, pur costitutiva, dell’essere umano. L’individuo cerca intensamente di raggiungere la felicità, ma è fortemente centrato su se stesso e vive come se fosse sempre un turista, senza mai fermarsi per approfondire un rapporto e trovando solo piaceri immediati ed effimeri.
L’individuo occidentale è dominato da ansie e timori, preso da un lato dall’eccesso di aspettative e dall’altro da delicati problemi ‘glocali’, risolvibili solo con modalità che vanno ben oltre la sfera individuale. Peraltro la dimensione sociale sembra assente dalla vita del soggetto e incapace di fornire quelle sicurezze che tranquillizzavano gli individui della modernità, per cui la situazione appare quasi drammatica, con il prevalere di un senso di precarietà e di incertezza, di relazioni deboli e frammentate, della perdita di memoria storica e di prospettive per il futuro.
L’aspetto più significativo che ci interessa evidenziare è il trasferimento delle logiche consumistiche alle scelte di vita degli individui, al loro modo di concepire la società e il mondo. Anche le persone cioè rischiano di diventare oggetti ‘usa e getta’, simili a molti prodotti che troviamo nelle cattedrali del consumo, come quegli ipermercati che ormai connotano il paesaggio delle nostre periferie urbane 1. I legami e le unioni sono trattati come cose che vanno consumate e sono soggetti agli stessi criteri di valutazione di tutti gli altri oggetti, soddisfatti o rimborsati 2. Ognuno di noi rischia di essere ritenuto una ‘cosa’, pronto a essere ‘eliminato’ quando non è più funzionale ad un lavoro, a un desiderio, a un’emozione; e ognuno di noi rischia di trattare gli altri allo stesso modo, con la stessa mancanza di attenzione e di rispetto umano.
La modalità consumistica delle relazioni incide profondamente sulla psicologia dei soggetti, già alle prese con una perdita di fiducia nelle proprie possibilità per gli effetti della globalizzazione: l’essere ‘scartati’ da qualcuno comporta nel medio periodo una perdita di autostima e, nei soggetti più esposti, anche crisi depressive profonde. La sensazione che gli esseri umani siano ridotti a oggetti non è certo piacevole, sia sul piano sociale che a livello personale, per cui si rafforzano le sensazioni di insicurezza, di paura, di solitudine. Tuttavia le difficoltà relazionali riguardano tutti gli individui della società occidentale, che reagiscono talvolta assumendo identità devianti e dipendenti dal consumo di sostanze stupefacenti, droghe, alcol o psicofarmaci (soprattutto durante il fine settimana), talvolta creando identità completamente virtuali (per es. entrando nel mondo parallelo di Second Life). Sembra che sia diventato quasi impossibile relazionarsi nella normale quotidianità, per un effetto Babele che investe innanzitutto i singoli soggetti (alle prese con mille identità, che si annullano vicendevolmente) prima ancora di influenzare l’interazione sociale.

La vacanza come κάιρός

É dunque un io fragile, insicuro, insoddisfatto quello che attende per tutto l’anno il periodo della vacanza e concentra su di essa aspettative e speranze, attribuendovi un significato profondo, di conquista di una nuova identità sociale nella creatività, nell’autorealizzazione, nello sviluppo di relazioni comunicative. La vacanza dovrebbe essere nelle intenzioni delle persone soprattutto un tempo di rapporti con un forte carattere simbolico, un luogo di ricupero dell’identità perduta nel tempo feriale e lavorativo.
Il turismo rappresenta quindi per l’individuo il κάιρός, il tempo opportuno per trovare una risposta ai bisogni di espressività e di senso, che dovrebbero avvicinarlo ad una vita più felice. Ricercando il benessere fisico e spirituale e rincorrendo un vago ma intenso sogno di felicità, si attribuisce alla vacanza e al turismo una dimensione di festa, con i suoi riti e le sue cerimonie.
Ritorno alla natura, riscoperta delle tradizioni, ricupero delle relazioni e degli affetti: la vacanza viene mitizzata, per lo meno nelle aspettative e nelle speranze dei turisti; non sempre però si rivela tale nell’esperienza concreta, per cui gli individui faticano a soddisfare i loro bisogni e le loro domande, sia per la difficoltà ad estraniarsi completamente dal loro vissuto quotidiano, a cui restano legati, sia per la pervasiva macchina dell’industria turistica, che tende ad avvolgere nella spirale consumistica anche i tempi e gli spazi della vacanza.

In questa situazione nel migliore dei casi si realizza la dimensione evasivo-ricreativa della vacanza ma non quella esperienziale o sperimentale. Ciò può generare frustrazione e delusione nei turisti, come dimostra il notevole aumento delle cause per danni psicologici da vacanza rovinata. La dimensione festiva della vacanza rischia dunque di consacrare le cattedrali del consumo anziché assecondare le domande esistenziali dei turisti: certamente non mancano esempi di come il turismo, soprattutto quello di massa, abbia prodotto guasti forse irreparabili al paesaggio, alle culture e alle popolazioni ospitanti.

Praticare un agire agapico nella quotidianità

Occorre dunque ritornare alla quotidianità, alla relazione autentica con l’alterità, ad un agire agapico, per provare a soddisfare i desideri che animano il turista e l’individuo contemporaneo. In questa prospettiva credo vadano ricercate e individuate le vie di un nuovo umanesimo, che valorizzi e sottolinei le caratteristiche e i bisogni comuni ad ogni essere umano, che porti al rispetto e al riconoscimento reciproci.
Innanzitutto va recuperato il senso del limite, un termine che pare difficile da accettare: “una società che estende costantemente, alla cieca, il campo del possibile affonda inevitabilmente in un mondo in cui più niente è reale, un mondo del virtuale assoluto, ovvero dell’impotenza totale. (Ricordiamo per inciso che, a livello dell’individuo, il posso tutto è uno dei nomi della psicosi)” 3. Benasayag e Schmit sono drastici ma la loro esperienza di psicoanalisti li mette di fronte quotidianamente ad adolescenti vittime di un malessere diffuso, che affonda le radici in un senso di insicurezza e di incertezza. I due studiosi sostengono che occorre modificare la concezione utilitaristica che identifica la libertà con il dominio di sé, degli altri, del proprio ambiente naturale e sociale, rivalutando invece il piacere di agire senza interessi immediati, noi diremmo di un agire agapico.
Ed è nella quotidianità che le persone possono scoprire i limiti di una concezione consumistica della vita e trovare il coraggio di esprimere la propria fragilità, condividendola con gli altri esseri umani. Nei gruppi di adolescenti e di giovani se qualcuno prova a raccontarsi in modo profondo e a manifestare completamente la propria umanità, dopo qualche diffidenza trova solidarietà e empatia. A quel punto saltano gli schemi della rappresentazione fittizia e prevale l’autenticità della relazione. Il problema è che qualcuno inizi e abbia la forza e il coraggio di rompere la routine della banalità e dell’artificiosità.
Si tratta di recuperare un rapporto più rilassato con il tempo, di rivalutare il silenzio come momento privilegiato della riflessione, di valorizzare la forza del pensiero e dello spirito critico, anche con il gusto dell’ironia e dell’autoironia, che stemperano la drammatizzazione degli eventi riconducendoli alla normalità del vivere umano.
La ricerca di motivi di speranza per una prospettiva diversa del vivere individuale e sociale può passare anche attraverso l’esercizio dignitoso e consapevole di una libertà solidale, l’appartenenza ad una fede religiosa o a forme diverse di spiritualità, l’adesione a stili di vita e modelli di consumo alternativi a quelli più diffusi.
Un’altra dimensione che si può riscoprire è quella della solidarietà, termine oggi un po’ in disuso, che significa soprattutto “essere solidali con l’infelicità dell’altro piuttosto che esservi indifferenti” 4. Anche la felicità è in stretto rapporto con il dolore, non per una concezione masochistica della vita, ma perché gioia e sofferenza sono entrambe costitutive della natura umana. Ciò rende tutto più complicato, aumenta le responsabilità e le difficoltà, ma rappresenta anche la via per un impegno e una sfida misteriosi e affascinanti, non riducibili al frammento e non soggetti al consumo immediato.
Il panorama diventa meno inquietante quando l’identità dei soggetti trae sostanza dall’autentica esperienza umana, che consta del riconoscimento della propria fragilità, dell’esperienza del dolore, del desiderio di felicità. Sembra concretizzarsi nel vissuto etico delle persone e nella capacità di empatia la possibilità di creare nuovi percorsi di senso, con il linguaggio unificante di un agire agapico e di una comune umanità solidale.

*Docente di politica sociale all’Università Cattolica di Milano.
1 G. RITZER, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iper-consumismo, il Mulino, Bologna 2000.
2 Z. BAUMAN, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.
3 M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, p.94.
4 Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Lavis (Tn), 2007, p. 97.

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