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Il nuovo libro di Social-One a cura di: Vera Araújo, Silvia Cataldi, Gennaro Iorio.
Con contributi di: Luc Boltanski, Michael Burawoy, Annamaria Campanini, Axel Honneth, Paulo Henrique Martins.

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Alcune sfide della  fraternità

_31_giulia_paola_di_nicola Giulia Paola Di Nicola

Sociologa, docente di sociologia della famiglia presso l'università degli studi di Chieti; dirige la rivista Prospettiva Persona, è membro del direttivo dell'Accademia internazionale INTAMS.

Premessa

Innanzitutto tutto permettetemi di ringraziare Tommaso Sorgi, l'amico e professore di sociologia con cui ho lavorato per diversi anni all'inizio del mio impegno universitario. A lui si devono gli unici corsi monografici in Italia su Sorokin, quando Città Nuova nel 1974 ebbe il merito di tradurre e pubblicare Storia delle teorie sociologiche in due volumi. Fare sociologia non è stato solo un impegno lavorativo e d'insegnamento  ma anche  un godimento dell'intelligenza e dell'anima, alla ricerca della verità e nel dialogo fecondo, cui si univa spontaneamente Attilio Danese, mio marito, pur appartenendo ad un raggruppamento disciplinare diverso. Non a caso i contenuti trattati e il metodo di insegnamento a più voci attraevano numerosi studenti.

Quando questo progetto-pilota comunitario è stato interrotto dal trasferimento del prof. Sorgi, la mappatura delle cattedre e degli istituti di sociologia  italiana si è rivelata incapsulata in una cappa  ben lontana da quell'isola felice. In questa disciplina, come in altre, non pochi fanno l'esperienza di imbattersi  in un mondo accademico che poggia su assunti teorici, gerarchici, disattenti, se non talvolta contrari, alla persona.

Per queste ragioni mi sembra che il Congresso organizzato dal Movimento dei Focolari sia una vera e propria risposta, a distanza di tempo, alla nostra aspirazione ad un'accademia nel senso originario del termine, come comunità di vita comune e di ricerca,  nel confronto aperto tra insegnanti e discepoli. Il nostro piccolo mondo dell'Università di Teramo era stato soltanto una prima profezia interrotta di quello che, a distanza di tempo, il Convegno dei sociologi sta portando avanti, consentendoci di incontrare nuovi ed interessanti percorsi. Si rianima dunque la speranza di poter pensare insieme e costruire quasi un piccolo "mondo-Cittadella", in cui la sociologia poggia sul pilastro della reciprocità interpersonale.

Per questo riaccendersi della speranza ringrazio  Vera Araújo e tutti coloro che hanno organizzato un Congresso che ho seguito con grande attenzione raccogliendo stimoli e riflessioni che vorrei qui ridonare.

1. Aspetti innovativi del Congresso

Il Congresso ha dimostrato la possibilità di fare sociologia in un clima fraterno e costruttivo.

Vorrei sottolineare alcune delle più salienti peculiarità:

  • l'organizzazione ragionevole e "umana" dei tempi, che ha consentito di conoscersi e confrontarsi sui temi trattati incontrandosi nei corridoi, al bar, nella sala d'ingresso.
  • L'unione tra arte e discorsività. Gli intervalli musicali e gli spettacoli di danza e canti sono molto rari nei Congressi Universitari. Eppure esiste una continuità e una reciproca fecondità tra arte e riflessione che giova all'assimilazione dei contenuti e alla partecipazione integrale (non solo testa) della persona.
  • L'unione tra teoria e prassi. La valorizzazione delle storie di vita, il racconto delle esperienze, il Rapporto sull'Africa sono tutti spunti che pongono degli interrogativi al sociologo e lo inducono a confrontarsi con la vita vissuta oltre che con i libri, lasciandosi mettere in questione.
  • La continuità discontinua tra scienza e spiritualità. Credo che nel mondo accademico, specialmente per gli studiosi credenti, vi siano non poche persone che avvertono l'esigenza di ricomporre queste due sfere, sia pure rispettando le loro differenze metodologiche e contenutistiche. Forse in Italia questa esigenza è ancora più sentita, perché, pur trovandoci nella sede centrale del cattolicesimo, in realtà vige ancora una separazione netta tra la teologia, studiata nelle Università Pontificie o negli istituti diocesani, e le "discipline scientifiche", studiate nelle Università statali. La teologia è considerata una scienza a sé stante, una disciplina riservata a quanti devono prepararsi a diventare preti o suore, o ad insegnare religione e catechismo. E' una separazione che non giova al sapere "laico" che rischia di rimanere a livelli di superficialità empirica privo di un orizzonte di senso, e neanche alla teologia stessa, che potrebbe restare chiusa nel suo "ghetto dorato" senza accorgersi di quanto deve alle sollecitazioni critiche del mondo laico. Calcando la mano e semplificando un po' il discorso, accade che chi ha fede deve fare i conti con ambienti in cui è più produttivo occultare il discorso di fede se si vuole essere in linea con l'indifferentismo e l'agnosticismo prevalenti. Dio è bandito dai confini scientifici e la cultura ne rimane impoverita.

2. Quale sociologia

Vincenzo Zani, nella sua relazione di apertura, ha sostenuto che uno dei compiti della sociologia di ispirazione cristiana dovrebbe essere quello di essere attenti osservatori di quanto si va sviluppando in questa disciplina e intercettare i saperi positivi attualmente sul tappeto, raccogliere il meglio, metterlo in risalto, condividerlo e approfondirlo. Questa attitudine positiva di apertura selettiva rivela una volontà cooperativa che già di per sé supera le vecchie contrapposizioni ideologiche e favorisce lo spirito collaborativo.

Essa tuttavia andrebbe integrata con la capacità di porre sul tappeto temi nuovi, per evitare che il mondo cattolico vada a rimorchio, magari in ritardo di qualche decennio, di tematiche che altri considerano oggetto preminente della sociologia, a svantaggio di quelle più coerenti con i propri progetti. Infatti l'oggetto della disciplina varia a seconda di chi si applica allo studio, in relazione ai tempi e ai contesti diversi (chi potrebbe dire che la sociologia di Comte affronta gli tessi temi di quella di Habermas?).

E' noto che ingenti somme di denaro vengono concesse dagli enti per studiare temi che a noi possono risultare secondari in relazione agli obiettivi che ci proponiamo e che hanno a che fare prevalentemente con il buon-essere della persona e della società. Anche se questa possibilità di lanciare in campo temi propri e non solo di rilanciare quelli altrui implica una forza che noi attualmente non abbiamo, essa non va esclusa a priori.

La forza è data dal fatto che non si rimane isolati nell'ampio "mercato" delle idee. Io aggiungerei anche che un gruppo pilota di sociologi ha anche il compito di creare una rete. Il collega di Lublino parlava di Kuhn. Questo studioso ha sottolineato l'importanza di creare una vera e propria comunità scientifica in cui i contenuti sono condivisi e il linguaggio è comune. E' il modo privilegiato per promuovere il cambiamento di una scienza e di dare forza a contenuti che altrimenti vengono automaticamente scartati. La comunità seleziona i temi, ne discute, li condivide, li lancia. Essa va oltre la parzialità del singolo "genio" alla ricerca di brevetti e di autocelebrazioni e, nello stesso tempo, consente ad ogni studioso di parlare sapendo che c'è qualcuno che ascolta e, dunque, di non cadere in un delirio culturale alienante.

Il convegno ha giustamente posto all'attenzione del sociologo come oggetto-soggetto scientifico la persona. Vera Araújo ne ha parlato chiaramente dando il la al convegno e  tutti lo hanno giustamente ripreso. La persona è il riferimento comune di quanti vogliono studiare la società non come un sistema autoregolantesi, asettico e spesso disumano, ma come una rete di rapporti che fanno capo a persone, condizionate sì dalle culture diverse, dalle istituzioni, dai contesti in cui vivono, ma fondamentalmente libere  e responsabili[1]. Ritengo però che una persona da sola, come anche due o tre persone, che sostengono idee nuove nell'ambito accademico non bastino. Ritornando all'esperienza fatta con Tommaso Sorgi, si conferma la necessità del sostegno di una comunità scientifica per promuovere il mutamento, in maniera tale che il seme possa essere accolto in un terreno fertile e maturare.

Come effetto primo di questo cambiamento dovrebbe venire in luce la ricomposizione tra cultura ed etica, non solo come discorso teorico, che anzi è piuttosto sfruttato, ma come credibilità degli attori della cultura, delle persone che fanno sociologia. L'incoerenza sottrae fiducia alle persone coinvolte e, di conseguenza, all'intera disciplina. Se la sociologia sta vivendo un periodo di discredito e uno stato di crisi disciplinare, probabilmente è anche perché non ci sono persone culturalmente, eticamente ed umanamente tali da attirare investimenti fiduciari. Accade come con una banca che non attira più la fiducia degli investitori che, quindi, ritirano i loro capitali, ed essa crolla. La sfida di una nuova sociologia che questo convegno ci lancia sta proprio in questo: il Movimento dei Focolari, attraverso la cultura dell'unità genera persone nuove e da esse si può partire per provare a costruire anche comunità scientifiche nuove aperte a quanti si mostrano sensibili a questi temi.

3. Il tema della fratellanza

Il tema proposto dal Convegno è quello della fratellanza. Non ci si è limitati ad un invito omiletico, ma si è focalizzato il tema come oggetto privilegiato di studio sociologico e possibile germe di una società amicale (si pensi alla relazione di Gennaro Iorio e alla presentazione de Il potere dell'amore di Sorokin, da parte di Michele Colasanto). La fratellanza è un'idea guida, una cornice di riferimento o un orizzonte di senso positivo, che rivela la sua forza  propulsiva di socialità, stimolante per tutte le scienze sociali. Non possiamo però nasconderci le possibili trappole di questo vocabolo, prezioso ma facilmente frainteso e confuso con "falsi idoli".

Uno dei compiti della sociologia è quello di "falsificare" un concetto, ovvero passarlo attraverso il fuoco purificatore delle sue derive e delle sue negazioni. Il negativo ne svela i limiti e ne smaschera gli idoli. Si tratta di chiedersi in nome di che cosa dovremmo sentirci fratelli.

Ad esempio:

  • dovremo escludere la fratellanza che s'identifica col legame di sangue. Sarebbero troppo evidenti le conseguenze catastrofiche di lotte fratricide che da Abele e Caino in poi hanno segnato la storia dell'umanità. La lotta tra Polinice e Eteocle è un riferimento fondamentale della cultura greca, con i miti correlati di Edipo e di Antigone. L'immagine di fratelli fratricidi è divenuta un topos della letteratura mondiale.
  • In nome della classe? Anche in questo caso si ricalcherebbe la dicotomia tradizionale amici-nemici. Il marxismo, che ha puntato tutto il suo impianto teorico su una giustizia inflessibile e rivendicativa, ritenendo incompatibili perdono e giustizia, ha alimentato l'odio per la borghesia e costruito rapporti di "solidarietà" solo all'interno della classe proletaria. La fratellanza recintata facilmente si tramuta in strumento di oppressione e d'ingiustizia.
  • In nome di una oligarchia di potere? Sarebbe la fratellanza dell'aristocrazia, delle élites contrapposte al popolo, che si ritrovano nei grandi appuntamenti, offrono immagini accattivanti di sé e difendono i loro privilegi, ammettono qualcuno al loro interno a loro insindacabile giudizio per poi richiudere le porte della fratellanza.
  • In nome del potere? Vi è una fratellanza che coincide con la cosiddetta trasversalità politica temporanea, strumentale al raggiungimento di determinati obiettivi. Accade così quando singoli appartenenti a partiti diversi si alleano per difendere la pace oppure per ottenere una determinata legge, come quella contro la violenza alle donne. Nell'accezione positiva, la trasversalità rappresenta il superamento delle divisioni partitiche e ideologiche, in vista del raggiungimento di beni considerati prioritari, tali da richiedere un impegno comune ("universali"). Essa contesta lo strapotere delle segreterie dei partiti, il dibattito politico incapace di un confronto sereno, viziato da posizioni partigiane, dalla tendenza a ridurre la comunicazione a retorica e rissa. I movimenti pacifista ed ecologico-ambientalista sono esempi di aggregazione trasversale, che convergono su richieste universali e sorvolano sulle differenze. Il moltiplicarsi delle trasversalità scavalca le ideologie e fa prevalere un certo pragmatismo. Le alleanze sono in grado di sciogliersi e ricostruire nuove reti, con altri aderenti e attorno a nuovi problemi. La trasversalità non è di per sé buona o cattiva. Spesso serve a ricompattare una maggioranza eticamente e politicamente ispirata, che nei partiti è soccombente. Sarebbe però ingenuo interpretarla solo come un movimento di fratellanza giacché, spesso, è soltanto la ricerca della forza per accrescere il potere di un gruppo, a scapito di coloro che ne restano fuori. Non c'è affinità di valori, ma puro calcolo opportunistico del consenso.
  • Nei diversi raggruppamenti di appartenenza mafiosa, la trasversalità rappresenta una "comunella" tra imprenditori, politici, universitari, banchieri, operatori finanziari, spacciatori e quanti hanno interessi da difendere. Ai livelli nazionali e locali, nei posti di lavoro e in politica, si compattano gruppi potenti, con struttura verticistica interna, miranti ad accumulare forza, a raccogliere complicità, alleanze, adesioni. Una simile fratellanza temporanea è piuttosto «una congrega di mascalzoni».
  • Nei diversi ambienti lavorativi si creano facilmente raggruppamenti di appartenenze che creano una genealogia interna e facilitano la carriera di persone affidabili. Il criterio della "affidabilità" è ambiguo e finisce col significare adesione incondizionata alle gerarchie consolidate del gruppo, a dispetto della competenza, dell'eticità, dello spessore umano delle persone. Si capovolgono i criteri della selezione della classe dirigente: risulta "affidabile", dunque degno di fiducia, chi è più manovrabile e la scelta degli uomini di qualità viene sostituita, come diceva Chateaubriand, dalla cooptazione di uomini che rinunciano alle loro qualità. Simili organizzazioni informali, che siano club, "scuole" o correnti, sono una piaga del corpo sociale e politico, che tende ad estendersi man mano che aumenta il potere di infiltrazione, riproducendosi negli ambienti amministrativi, finanziari e giudiziari, nelle università, nelle istituzioni politiche, sostituendo i partiti con la logica del puro potere, con criteri intrasistemici e occultando la parte migliore della società.

Si vede bene che facilmente l'idea di fratellanza può essere confusa con un'appartenenza che divide il mondo in due, i fratelli e gli esclusi, gli appartenenti e gli emarginati.

Nello smascherare i falsi concetti di fratellanza la sociologia dà una mano alla convinzione dei credenti di essere fratelli in nome di Dio, in quanto figli dello stesso Padre. La fede è la sorgente preziosa e nascosta della loro ricerca, che spesso consente una marcia in più rispetto a quanti mancano di un al di là sempre vigile rispetto alla cosificazione dell'al di qua.

La fede non può essere relegata in un cantuccio privato della coscienza e tirata in ballo solo la domenica o alla morte del papa. In sociologia essa  è la sentinella che mette in guardia dai falsi idoli presentati come l'orizzonte ultimo del sapere. Neanche però  può straripare dai suoi ambiti e dettare legge alla sociologia. Nel pluralismo della cultura contemporanea è necessario adottare un duplice registro. Potremmo considerarlo uno strabismo, se con ciò non s'intendesse una patologia ma un atteggiamento sano e maturo della persona capace di mantenere la bussola della propria vita orientata verso l'alto, verso l'Ideale che intende raggiungere, verso Dio. Dall'altra è necessario saper affrontare i problemi della società anche etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, perché altrimenti Dio può diventare il tappabuchi, la spiegazione preconcetta, la ricetta, e i sociologi avrebbero ragione di rimproverarci di tagliare corto sui problemi e risolverli in modo posticcio. Non è facile imparare ad usare il duplice registro nella  lettura della propria storia personale, coniugale, sociale: quella orizzontale, con tutte le motivazioni psicologiche, sociali, economiche connesse, e quella soprannaturale. Come ha scritto G. Danneels con riferimento agli sposi, tutti portano con sé la lampada della fratellanza, dell'amore umano, come le vergini della parabola. Occorre però l'olio della grazia, che fa bruciare la lampada con la carità divina, quella capace di amare anche quando non si è amati, olio scarso nella nostra epoca, che più agevolmente si accontenta della solidarietà e della responsabilità. Solo le persone sagge, come le vergini, ne fanno riserva e sono perciò in grado di accendere il flusso dell'amore reciproco. La lampada della buona volontà e la grazia dell'olio divino fanno una combinazione misteriosa, il cocktail che genera una vera fratellanza: «Lo si può paragonare al suono del pianoforte. Le due mani sono necessarie: la sinistra per l'accompagnamento, la destra per la melodia. Questa è la regola. Suonare ad una sola mano è possibile, ma il suono che si produce è molto povero e incompleto. Parimenti per il perdono: si suona a due mani, quella di Dio e quella dell'uomo... noi suoniamo l'accompagnamento. Dio suona la melodia. Ed è quest'ultima che determina il carattere di tutto il pezzo»[2]. Domandiamoci in che misura è possibile oggi fare una "Sociologia del soprannaturale", come ha fatto Sturzo, che nell'ottica dello strabismo di cui abbiamo parlato, ci può aiutare a mantenere la bussola diretta verso Dio?

4. Alcune sfide

          Vorrei indicare alcune sfide della fraternità per evitare di cadere nelle trappole suddette e in quelle nuove prodotte dalla fratellanza tecnologica.

  • Uscire dalla confusione tra il virtuale e il reale delle relazioni a tu per tu: uno degli aspetti più pericolosi della diffusione delle comunicazioni tecnologiche è il rischio di confondere il rapporto diretto tra persone con quello virtuale e pensare che l'altro possa essere acceso, manipolato, spento a proprio piacimento. Quando siamo al telefono, davanti al computer o alla televisione possiamo interrompere i rapporti con l'altro se ci creano problemi senza strascichi. Nei rapporti reali non possiamo trattare l'altro come se rappresentasse soltanto motivo di svago e di piacere della conversazione. L'altro c'inquieta, ci crea disagio, ci coinvolge nei suoi problemi, ci affatica, ma è reale. La facilità del virtuale si contrappone al travaglio della costruzione di rapporti significativi nel vis à vis quotidiano. Dobbiamo imparare questa differenza e non adagiarci nella comodità dello strumento tecnologico.
  • Dovremmo evitare l'eccesso di realismo, rappresentandoci il reale per confermarlo e approvarlo, evitando cioè qualsiasi giudizio che impegni a dare un orientamento etico allo sviluppo dei processi sociali e culturali. Parimenti dovremmo evitare l'eccesso di idealismo, che tende a sottovalutare e occultare la realtà per costruirne un'altra a nostra misura, nella quale sentirci a nostro agio, protetti e sublimati. Una nuova sociologia sarà credibile se manterrà un equilibrio sapiente tra spiritualità e scientificità.
  • In terzo luogo, dobbiamo evitare l'eccesso di irenismo e di conflittualismo. Questa è un'altra tensione da mantenere viva, perché il pacifismo ad ogni costo è smentito dai fatti. La sociologia non può esimersi dall'osservare e studiare le ragioni degli interessi che orientano i comportamenti sociali, che si contrappongono e che, bene o male, coinvolgono tutti, dal mascalzone al santo. Non si può confondere la società ispirata al modello relazionale trinitario, con la realtà nella quale tale modello si realizza nel tempo e con fatica. Il conflitto non va demonizzato, anzi può risultare una risorsa in grado di offrire ex post risposte preziose ai problemi sociali.
  • Vi è collegata la convinzione che la fraternità non si compera ai saldi, a basso prezzo. Quando Chiara Lubich parla di Gesù Abbandonato non esprime solo una buona intenzione, una predica, una via spirituale per la santificazione. Mi sembra che si tratti di una chiave valida proprio in relazione al realismo di cui abbiamo parlato: ci inganneremmo e inganneremmo gli altri se presentassimo una visione conciliata della vita e del cristianesimo. Per costruire fraternità, bisogna pagare un prezzo, come per generare bisogna partorire. La sociologia dell'amore non direbbe la verità se l'intendesse come un semplice embrassons nous, un sentimento benefico e pacificante. Proprio dicendo che chi costruisce fratellanza paga un prezzo, noi mettiamo al centro la persona, la sua libertà e la sua responsabilità. Tale principio vale per tutti e ha una sua rilevanza anche a livello laico e scientifico.
  • In quinto luogo, vorrei riprendere il tema dei diritti, già toccato da Tiziano Vecchiato. Preferisco collegarlo alle obbligazioni ed usare questa parola piuttosto che i "doveri", che risentono di una certa impronta di rigidità kantiana. Questa è l'epoca della moltiplicazione dei diritti, delle carte dei diritti reclamati da ogni categoria e rivendicati in uno stridulo cicaleccio di pretese unilaterali. I diritti di un singolo o di una categoria, però, vanno facilmente a confliggere con quelli degli altri e la fratellanza diviene recintata. Solo quando si paragonano le proprie richieste alle condizioni di vita altrui si verifica se si tratta della rivendicazione di un privilegio. Ecco perché è la comunità il luogo della distribuzione delle risorse secondo criteri di equità e di corrispondenza alle esigenze di ciascuno.
  • Non si può agire nei "piccoli mondi" (come li ha chiamati Tommaso Sorgi in un libro dallo stesso titolo[3]), applicando ad essi il criterio della comunità idilliaca, dei rapporti primari, affettivi, solidali e contrapponendoli alla freddezza delle istituzioni in maniera dicotomica. Può accadere infatti di pensare alle comunità come al mondo pulito della solidarietà micro-sociale e vicina, e alle istituzioni come al mondo sporco dell'oppressione, della burocrazia, del macro-sociale cristallizzato. Su questa base si tende ad accontentarsi di rimanere chiusi nel ghetto del proprio piccolo mondo. Credo che in questa direzione sia importante riprendere il suggerimento di Paul Ricoeur, che a proposito della cura, elabora un tripode etico centrato sulla cura di sé, sulla sollecitudine per l'altro e sulla cura delle istituzioni. Anche queste ultime sono fragili e richiedono da parte nostra un investimento di risorse, perché siano il più possibili a misura delle persone e rappresentino criteri di giustizia nella canalizzazione e nella distribuzione delle risorse. E' attraverso le istituzioni infatti che noi non amiamo soltanto i fratelli, ma anche quel "ciascuno" che non conosceremo mai, che non potrà mai diventare nostro amico, ma che è ugualmente degno della nostra obbligazione di cura. L'istituzione è quel canale neutro ed universale grazie al quale possiamo raggiungere tutti.
  • Anche nel campo della sociologia mi sembra importante da una parte alimentare la coscienza dell'appartenenza ad una comunità fraterna e costruttiva, e dall'altra, tramite le istituzioni (anche scientifico accademiche) provare - per quel che è possibile - a mettere in circolo una qualità alta della sociologia e delle scienze sociali applicate, in modo che tutti possano beneficiare del lavoro che si va facendo.
  • Creare fraternità significa proprio questo: moltiplicare, tramite canali di amplificazione importanti quali quelli istituzionali, il bene che si può fare a livello micro. Si tratta di due livelli diversi, eppure entrambi fondamentali, che partono dalla stessa radice etica.


[1] Per un approfondimento teorico in questa  direzione mi permetto di rinviare al mio Per un'ecologia della società, Dehoniane, Roma 1994 ( sp. capp. 1 e 2).

[2] G. Danneels, Pardonner. Effort de l'homme - don de Dieu, SPA, Mechelen 1998, p. 16.

[3] T. Sorgi, Costruire il sociale. La persona e i suoi "piccoli mondi",   Città Nuova, Roma 1991.

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