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L'AGIRE AGAPICO NELLE SCIENZE SOCIALISalvatore Nasca*

Sono contento del tentativo avviato di uno studio dell’agire agapico dal punto di vista delle scienze sociali, e quindi dell’iniziativa di questo Congresso.
 Sono un sociologo che da anni lavora come dirigente di un ufficio del Ministero della Giustizia a Livorno, che si occupa delle misure alternative alla detenzione e dei raccordi tra carcere e pena da una parte e comunità sociale dall’altra. Ho “lasciato” la Sociologia sia per l’interesse per questo lavoro sia per la delusione per una scienza che mi sembrava sempre più astrattamente accademica ed autoreferenziale e sempre più distante dalla, e disinteressata alla, vita concreta delle persone. Mi pare perciò interessante per la sociologia questa sfida di affrontare il tema dell’agire agapico, utile forse anche come tentativo di uscire da questi suoi limiti e chiusure e di rinnovarsi.

Ho apprezzato anche il tema di Colasanto e Iorio, così come gli altri interventi, e vorrei qui presentare alcune mie osservazioni.

Credo che debba essere evitato il rischio di ripetere, anche in questo originale ed apprezzabile tentativo, i “mali” ricorrenti della sociologia, prima accennati, quali l’eccesso di astrazione e di distanza dalla realtà. In questo senso concordo con quanti hanno osservato che l’agire agapico debba essere cercato non tanto nell’accademia ed in riflessioni astratte quanto invece nella realtà concreta, con precise ricerche sociali e anche, perché no?, con ricerche – intervento.

In questo senso mi pare altresì importante centrare l’attenzione, come è stato pure osservato, sull’agire agapico e non su un presunto homo agapicus; l’agire agapico va infatti, a mio avviso, analizzato solo e soltanto come fatto sociale, e non come fatto personale del singolo.

Dell’aspetto individuale dell’agape è infatti bene se ne occupino altre scienze, come la teologia, la psicologia, ecc., con le quali poi la sociologia può e deve senz’altro dialogare, ma senza approfondire in maniera diretta e specifica il loro campo.

Così come è bene che la sociologia eviti di addentrarsi nelle questioni più individuali, è altrettanto bene, a mio avviso, che eviti di affrontare ed approfondire il concetto di agape in termini generali e teorici anziché concentrarsi sulle forme concrete dell’agire agapico. Anche qui, infatti, mi pare che la riflessione sull’agape come concetto, principio, o altro teorico – astratto, è bene lasciarla ad altre scienze, come la teologia, la filosofia, l’etica, ecc.

Lo specifico della sociologia non è infatti né nelle questioni individuali – personali né in quelle di carattere generale, filosofico – teologico, etico, per cui, addentrandosi in queste, si rischia di non avere nulla di particolarmente significativo, innovativo e quindi utile da dire e da portare avanti, se non per una ristretta cerchia di “intellettuali”.

Contributo specifico della sociologia mi pare invece possa – debba essere non perciò inventare qualcosa ma, come è stato già accennato, valorizzare quello che esiste, farlo emergere, studiarlo attentamente, e perciò, per rimanere al nostro oggetto, andare a cercare, nella realtà concreta, come l’agire agapico si esprime, quali sono le condizioni sociali che lo favoriscono e che lo ostacolano, quali le caratteristiche sociali (non personali) che assume, come si sviluppa, ecc.

In questo modo anche la sociologia può aiutare a far emergere, ed indicare come, il possibile passaggio da un amore singolo – individuale ad un amore sociale che ha effetti sociali.

Si tratta, in altre parole, di concentrarsi nello specificare quei “sì” richiesti anche da Giulia Di Nicola.

Questa ricerca dei sì e quindi delle esperienze concrete di agire agapico, credo inoltre debba essere fatta senza mitizzazioni. Per esempio, è stato citato, come campo privilegiato di agire agapico, il terzo settore, ma è ormai una realtà diffusa il fatto che il terzo settore vive spesso secondo logiche di mercato, in parte certamente in maniera diversa dalle aziende, ma in buona parte a queste molto vicine (ricerca del finanziamento, concorrenza, ecc.).

· L’agire agapico va certamente ricercato all’interno di realtà “forti” e “particolari” come sono le comunità del Movimento dei Focolari o simili, che hanno proprio nel loro DNA alcuni valori (amore, solidarietà, ecc.), e che quindi possono rappresentare dei possibili bozzetti di una vita comunitaria realmente centrata sulla fraternità. Sarebbe bello ed importante poi puntare anche a ricercare l’agire agapico anche negli ambiti di vita “normali”, dove solitamente si pensa che esso non possa avere casa, perché le logiche dominanti sono molto diverse ed a volte opposte, ma dove possono invece a volte essere scoperti “germi” interessanti di vita comunitaria fraterna.

Solo per fare un esempio, porto un’esperienza che a mio avviso potrebbe essere studiata in questo senso. Presso il carcere di Volterra, alcuni detenuti vengono formati e diventano chef di alto livello (grazie a Slow Food, Federazione Italiana Sommelier e ad altre associazioni). Si organizzano delle cene presso l’istituto, preparate in tutto dai detenuti, cui partecipano liberi cittadini. I detenuti decidono di destinare il ricavato di queste cene, anziché a se stessi ed alle loro famiglie, ai Progetti dell’iniziativa “Il cuore si scioglie” della Coop di Firenze per adozioni a distanza in varie parti del mondo, tra cui anche la cittadella Fontem del Mov. Focolari in Cameroun. Il corso di formazione e la preparazione delle cene non sono cosa di poco conto in un carcere, ma tutto viene fatto in un clima di vera collaborazione non solo tra detenuti e operatori esterni, ma anche tra detenuti ed agenti, tanto che alla fine di una cena, cui ho partecipato, i detenuti si sono sentiti, senza che nessuno li avesse autorizzati prima, di prendere la parola, davanti a centinaia di commensali, per ringraziare uno per uno gli agenti che erano stati al loro fianco in questo impegno. L’impressione generale è veramente quella di un agire agapico, sia nella motivazione dell’iniziativa (aiuto a progetti per le persone che soffrono più di loro) sia nella conduzione (rispetto, aiuto, condivisione tra detenuti, agenti, esperti, cittadini, ecc.).

L’agire agapico va perciò cercato in tutti gli ambienti, anche in quelli “particolari” come il carcere ma anche dentro le tanto bistrattate istituzioni, perché anche lì sono presenti e possibili, da parte di tanti dipendenti e funzionari, che non fanno volontariato ma che fanno con coscienza e responsabilità il proprio dovere, e quindi agiscono personalmente ma spesso anche in gruppo in un’ottica di servizio.

Questa strada, della ricerca e della valorizzazione delle esperienze esistenti di agire agapico è altresì importante per un altro motivo, perché se è vero che l’amore non si può obbligare e normare, è altrettanto vero che mostrare l’agire agapico concretamente realizzato è la via più efficace perché si diffonda l’idea che vivere agapicamente è il modo migliore per realizzare una società nuova ed anche per realizzarsi pienamente come persone in relazione.

Dirigente presso il Provveditorato Regionale Toscana dell'Amministrazione Penitenziaria, Direttore Ufficio Esecuzionale Penale Esterna del Ministero Giustizia di Livorno, sociologo, assistente sociale

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